Vivere da soli era il sogno di ogni adolescente, andarsene di casa, gestirsi i tempi, nessun genitore che entrava in camera urlando di pulirla e nessuna ragione di nascondere le cose. Per molti l’andare a vivere da soli era sinonimo di libertà e indipendenza, per Hyerin era semplicemente la quotidianità. Si era trasferita in quel dormitorio l’anno prima per essere più vicina alle lezioni e non pesare troppo su suo fratello (o almeno la scusa ufficiale). La verità era molto più complicata in realtà: vivere nel dormitorio le permetteva di dimenticare tutto fino al venerdì sera, quando tornava da Kyong-jin. E anche ora quel posto le mostrava una via di fuga, una maschera da indossare, una realtà diversa da quella in cui avrebbe dovuto vivere. Tornare in quell’appartamento era doloroso, il silenzio tra quelle mura era troppo, il vuoto opprimente. E lei finiva sempre per scappare da lì, rimanendoci giusto il tempo di controllare che tutto fosse in ordine e al proprio posto, pagare l’agenzia di pulizie, prendere le bollette e cose del genere. Si era ripromessa di far pace con la propria testa, di riuscire a convincere il proprio cuore che quello era solo un posto, niente di più. Ma i ricordi uscivano prepotenti, spingevano le lacrime a correre sulle sue guance e le sue gambe a tremare. Tutto sommato forse il dormitorio anche per lei era sinonimo di libertà.
Quelle settimane poi le lezioni erano state tremendamente intense: i professori sembravano aver deciso di partecipare ad una maratona, costringendo lei e tutti i suoi compagni a perdere le mani nel tentativo di scrivere ogni singolo passaggio. Erano quasi due settimane che non toccava un computer se non per studiare, ergo due settimane che non entrava su Lyoko e due settimane perse nel cercare il vero colpevole da mettere dietro alle sbarre. La giovane si lasciò cadere sulla sedia, chiudendo gli occhi e sospirando sfinita. Lanciò uno sguardo disperato all’orologio sul muro notando con dispiacere che sì, la giornata non era ancora finita.
« Non è giusto » mormorò lasciando cadere la testa all’indietro e sbuffando. Ormai non ricordava neanche più l’ultima volta che si era alzata da quella scrivania ma, a giudicare dal dolore alla schiena, doveva essere stato molte ore prima.
« Beh, una pausa me la merito no? » esordì, domanda diretta ovviamente al lupo di peluche adagiato comodamente sul letto. La giovane sorrise, prendendo quel silenzio come un’affermazione e lentamente si alzò dalla sedia, sbadigliando e stiracchiandosi pigramente.
« Sembri un gatto » la voce del fratello sembrò riempire la stanza mentre un mezzo sorriso si formò sulle sue labbra a quel dolce ricordo. Quando ancora andava a scuola e stava con lui, esibendosi in elaborati allungamenti pur di non alzarsi per raggiungere l’oggetto desiderato in quel momento.
« Potrei farmi una doccia e ordinare del cinese, che ne dici? » e in quel momento la sua attenzione fu attirata dalla porta, quel bussare inaspettato sulla superficie di legno. Perplessa si avvicinò e guardò dallo spioncino, senza riconoscere l’uomo dall’altra parte e lanciando un’occhiata dubbiosa al pupazzo sul letto.
« Chi è? » chiese con tono serio, aprendo la porta di quel poco che bastava per osservare meglio l’uomo. Dopotutto pensò che tutti i suoi anni di Taekwondo le sarebbero tornati utili in caso avesse voluto cacciarlo.
Solo dopo la risposta dell’altro si sarebbe fatta da parte, alzando gli occhi al cielo e borbottando un
« iniziavo giusto a chiedermi perché ancora non ti eri fatto vivo », guidandolo verso la propria camera e andando a sedersi nuovamente sulla sedia alla scrivania, senza staccare gli occhi di dosso all’altro neanche per un secondo.
L’appartemento in questione era un monolocale composto da una cucina in stile moderno, un letto a due piazze e un bagno. La zona notte bene separata dal resto da un’ampia libreria, una scrivania sui cui passava la maggior parte delle giornate e, la cosa che più adorava di quella casa, le ampie finestre.
Nulla in confronto a quello di suo fratello, ma ben sopra la media degli studenti francesi.